
Se qualche anno fa avessi pensato che sarei salito sul Corno Grande avrei sorriso e mi sarei detto “ma figurati…” E invece, eccomi lassù, sul tetto dell’Appennino, insieme a tanti compagni d’escursione e a tanti altri escursionisti che neanche conosco! Il Gran Sasso è sempre stato un po’ una chimera, l’ho sempre sfiorato e corteggiato, ma mai ero salito sul suo duro cuore di pietra in questo modo!
Raggiungere la cima del Corno Grande, Vetta Occidentale, per la Normale, è stato molto impegnativo, sicuramente un’uscita per escursionisti esperti: la pendenza nel tratto finale, l’altitudine, il fondo ghiaioso e scivoloso, a tratti con pietre che si staccavano e cadevano verso il basso. Ma è bello toccare con mano le rocce che rappresentano l’anima stessa dell’Appennino e di una regione che mi si sta rivelando sempre più multiforme come l’Abruzzo: alcuni suoi monti sono freschi e gentili, come nel PNALM, altri sono selvaggi e solitari, come nel Sirente-Velino, altri ancora sono lontani e misteriosi, come la Laga o la Majella; il Gran Sasso è invece costituito di una bellezza dura e spietata, quasi arrogante, ben rappresentata dalle pietre infinite di cui è costituito, e apparentemente così dissimile dalle vaporose ed eteree cime dolomitiche. Ma queste sono considerazioni mie, mentre salgo con gli altri tra Monte Portella e Monte Aquila e poi, mentre mi inerpico per i tornanti che portano alla Sella del Brecciaio.
Non avverto la fatica che in altri frangenti, già poco oltre i 2000, mi aveva appesantito il fiato; ma ammiro l’imperiosità dell’Intermesoli, alla mia sinistra, e del Corno Piccolo di fronte. Tempo fa, per raggiungere le Cascate del Rio Arno, ci trovavamo come delle formichine tra questi due giganti; ora, invece, cammino sulle spalle di un gigante più grande di loro!

E’ impressionante il numero di escursionisti (e anche di alpinisti) che giungono da più lati: alcuni dal versante che dà su Prati di Tivo; altri che si avventurano per la Via delle Creste. Noi continuiamo, fin quando i piedi non sono più sufficienti da soli: la Normale diventa una piaga nella pietra, e si trasforma in una linea diagonale attraverso la roccia, quasi una Direttissima. Lo scenario mi ricorda Mordor, pietre dappertutto, e nuvole che salgono dall’Adriatico e che sembrano vapori. Laggiù, emozionato, ammiro il Calderone, un vero e proprio unicum nella famiglia dei ghiacciai: gli altri sono molto più grandi e appariscenti di lui; ma lui è il solo sugli Appennini, e nessun altro nel nostro Vecchio Continente ha avuto il coraggio di spingersi così a sud!

Ora il fiato mi diventa pesante, ma non ci penso neppure: la Vetta Occidentale è là, a pochi passi. E’ affollata quasi come una piazza di paese la domenica dopo la messa, ma non fa niente: ci sono io, perché non dovrebbero esserci anche gli altri? Ciò che non dovrebbe assolutamente esserci sono alcuni incivili rimasugli di cibo, cicche e cartacce, che attirano anche improbabili uccellini-spazzini: non riesco a spiegarmi come si possa essere così irrispettosi di un Tempio della Natura e di se stessi in questo modo a quasi 3000 metri di altezza!

Ma non c’è tempo di pensarci, non sarebbe neanche giusto, tanto è bello tutto intorno: si scende, sempre a quattro zampe in alcuni tratti. Si ritorna a contemplare la bellezza desertica di Campo Pericoli e delle lande che vengono nuovamente percorse dai nostri scarponi. Il silenzio ci conduce nuovamente a Campo Imperatore e al suo nulla imperioso, tra i raggi di un sole quasi calante.

E devo dire che sono soddisfatto: sono riuscito ad infilarmi come un ago nel cielo d’Abruzzo e d’Italia!